La Giornata della Memoria

Una giornata per non dimenticare
"Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario" (P. Levi)




La Giornata della Memoria fu istituita nel novembre del 2005 grazie ad una risoluzione dell'ONU. Celebrata il 27 gennaio di ogni anno, vuole ricordare le vittime della Shoah (in ebraico "catastrofe", "distruzione"). 
Il 27 gennaio 1945 le truppe sovietiche scoprirono il campo di sterminio di Auschwitz e liberarono i pochi superstiti, scampati all'eccidio nazista.
La scoperta del lager e le testimonianze dei sopravvissuti rivelarono l'orrore del genocidio. 


Lo sterminio nazista provocò circa quindici milioni di morti, tra cui cinque o sei milioni di ebrei: la furia nazista si scagliò non solo, infatti, contro la popolazione giudaica, ma anche contro quelle persone ritenute "indesiderabili e inferiori", come ad esempio gli omosessuali, i comunisti, i testimoni di Geova, i malati e i portatori di handicap.


Le testimonianze e gli spunti di riflessione

Molteplici sono le voci che ancora oggi testimoniano lo scempio compiuto. 
Si consiglia la lettura in classe di parti scelte del romanzo "Se questo è un uomo" dello scrittore Primo Levi, di cui riportiamo l'incipit:

Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.


E' disponibile un file pdf del romanzo al seguente link: 



Una testimonianza tutta al femminile, di grande valore d'impatto, è racchiusa nel volume "Come una rana d'inverno. Conversazioni con tre donne sopravvissute ad Auschwitz: Liliana Segre, Goti Bauer, Giuliana Tedeschi". Ne riportiamo qui qualche brano:


1 - Una rana d’inverno fa pensare a una bestiolina che rabbrividisce nuda 

Mettere nudo un uomo davanti a un altro uomo è senz'altro una cosa umiliante e terribile. L’uomo è vestito, magari in divisa, con le armi: l’altro è nudo, inerme, in stato di completa debolezza. Eppure mi pare che la donna nuda davanti all'uomo armato sia sottoposta a un oltraggio ancora maggiore. Ti insegnano a stare sempre composta, a vestire accollata, a provare pudore del corpo. Poi, di colpo, nello stesso giorno in cui ti strappano ai tuoi familiari, in cui scendi da un treno della deportazione e arrivi in un posto che non conosci, che non sai nemmeno collocare su una carta geografica, ti ritrovi nuda insieme ad altre disgraziate che, come te, non capiscono quello che sta succedendo. Non c’è nulla, lì attorno, che non faccia paura. Sei terrorizzata, e intanto i soldati passano sghignazzando, oppure si mettono in un angolo discosto a osservare la scena di queste donne che vengono rasate, tatuate, già umiliate, torturate per il solo fatto di essere lì, nude [….] Quando facevo la doccia con le mie compagne, all'uscita dal turno nella fabbrica di munizioni Union, dovevamo tenere con un braccio i nostri vestiti, perché nessuno li rubasse, e con l’altro lavarci sotto uno sgocciolio d’acqua di volta in volta bollente o ghiacciata, con un pezzetto di sapone che non bisognava perdere, altrimenti non ce ne sarebbe più stato dato un altro. Poi uscivamo nel gelo della notte, grondanti, rimettendoci addosso i nostri stracci. Durante tutto quel balletto grottesco sotto la doccia passavano i soldati, sbeffeggiandoci. Era questo prezzo a essere intollerabile, questo ridere di noi, questo punire ogni minima disobbedienza facendoci stare nude per ore. La nudità è stata una costante e io l’ho vissuta come una grande persecuzione morale, aggiunta a una situazione già di per sé terribile. […] Sono rimasta da sola per ore, nuda, aggrappata a una piccola stufa in quella stanza gelida, enorme, con una finestra rotta. Fuori c’era una tormenta di neve. Era febbraio. Non c’era da sedersi, non c’era da mangiare, nessuno che mi dicesse una parola. Ero veramente a un punto di non ritorno psichico, quando è entrata un’altra ragazza, anche lei appena rapata, in attesa che le disinfestassero i vestiti. Forse era cecoslovacca, o polacca. Non ci capivamo, perché nessuna aveva ancora imparato il tedesco. Avrà avuto 16 anni. Volevamo così tanto comunicare che ci facevamo dei segni, ci salutavamo, ma non sapevamo come rivolgerci l’una all’altra.[…] Alla fine abbiamo trovato il latino. mea familia pulchra est. Mea patria pulchra est. E poi non so cos'altro ci dicessimo: il mio cuore è triste, bello che tu sia qui… pochissime frasi, sicuramente sgrammaticate, imbastite a fatica in quella specie di esperanto dei colti, che abbiamo continuato a ripetere infinite volte, perché dire la mia casa è lontana, la famiglia è bella, il mio cuore è triste, in quel contesto, nella nostra nudità - lì sì proprio rane, mentre continuavano a passare i soldati che si sganasciavano dalle risate - ci dava una grande gioia. 

2 - Non si può neanche dire che fossero pazze …

Io mi ero sviluppata solo l’anno prima e ricordo che il rito delle prime mestruazioni mi era stato raccontato in casa come un grande avvenimento, di cui però non avevo sentito la portata. Ricordo che soffrivo parecchio, durante il ciclo, e uno dei primi pensieri che ho avuto lì dentro è stato: come faremo quando arriveranno le mestruazioni? Perché lì non c’era riparo. Non avevamo mutande, e nemmeno uno straccio da metterci tra le gambe. Ma il problema non si è presentato, dal momento che - vuoi per lo spavento, vuoi per l’assoluta mancanza di cibo, o perché nell'orribile zuppa pare che mettessero del bismuto - a quasi nessuna vennero più le mestruazioni, man mano che il corpo perdeva le sue forme originali e si trasformava in uno scheletro di vecchia. Il digiuno è così violento che nel giro di pochissimo tempo là dove c’è il seno non resta più niente o, in certe donne, solo un po’ di pelle cascante. Le ossa delle anche ti bucano la pelle, premendo come spunzoni sul tavolaccio dove sei costretta a dormire senza poterti voltare, incuneata nei corpi delle altre. Ti guardi le gambe e ti sembra impossibile che ti possano sorreggere. Hai la testa rasata, non hai uno specchio, non hai nulla. Sei una persona che non ha più nulla. Non hai un fazzoletto, non hai un libro, non hai una fotografia. Non hai. Non hai proprio niente. Non possiedi altro che quei pochi stracci che porti addosso. Avevo una giacca con la fodera mezzo strappata, e quella fodera l’ho usata tutta per andare in gabinetto. Queste cose, giorno dopo giorno, vanno tutte a scapito della tua femminilità, del tuo essere una donna che lotta per non abbrutirsi completamente. Erano tutti passaggi che portavano via un pezzo di te. […] Nel Lager femminile di Birkenau, dove erano rinchiuse sessantamila donne, le Aufseherin, le sorveglianti, erano donne SS. Ce n’erano di giovani, belle, curatissime nella persona, e di non giovani e non belle; ce n’erano alcune decisamente odiose anche di aspetto, dalle quali ti aspettavi il gesto cattivo, il calcio degli stivali neri lucidissimi che avevano un rinforzo di ferro sotto la punta. Ma non ti aspettavi la stessa durezza, la stessa crudeltà da parte di quelle belle, perché ti sembrava che la bellezza già dovesse appagarle. E invece erano implacabili. Le ho viste compiere atti di soverchieria, di prepotenza inaudita anche nei confronti di prigionieri uomini che non potevano certo difendersi: Le ho viste frustare senza pietà. E avevano mille occhi. Nel Lager femminile ce n’erano in grande quantità. Sopra le divise avevano delle mantelle che le facevano assomigliare a uccelli del malaugurio. Le temevo moltissimo. Quando tornavamo dal lavoro, ai lati della strada principale del campo, vedevamo donne prigioniere, scheletrite, che dovevano tenere alto un masso per ore.[…] Venivamo trattate con una violenza infinita. Ho preso tanti schiaffi e pugni senza neanche sapere perché. Passavi e ti tiravano un ceffone da voltarti la faccia... D’un tratto, queste Aufseherin così tremende con le prigioniere, davanti ai maschi SS si trasformavano in femmine sorridenti che sbattevano le ciglia […] e questa doppia faccia era impressionante […] Non si può neanche dire che fossero pazze, perché così si liquiderebbe l’argomento e io non lo posso accettare. Sennò Hitler era pazzo, erano tutti pazzi. No, l’unico discorso che regge è quello della Harendt, sulla banalità del male.

3 - Mi toglievo da lì, come potevo

Ho capito da sola che dovevo fare da sola tutto quello che era nelle mie possibilità per non farmi notare, soprattutto quando non ho più avuto i capelli e sono diventata molto più uguale alle altre.[…] Ho sempre fatto in modo di essere una nullità. Non piangere, non ridere, non star male. Ho avuto degli ascessi, la febbre, ma non sono mai andata a dire a qualcuno che stavo male, perché sapevo, sentivo, che mi avrebbero risposto, ah, stai male? Allora non servi più. Non è facile a tredici anni decidere di non dire a nessuno che ti senti male. […] Non volevo farmi notare per nessun motivo, e questa trasparenza serviva, serviva molto, […] Qualche anno fa, durante una testimonianza, ho incontrato un deportato politico che era stato prigioniero anche lui ad Auschwitz e mi ha detto, ti ricordi la Vistola? La Vistola? Io non l’ho mai vista la Vistola. A parte il fatto che noi facevamo un percorso che non ci portava vicino al fiume, ma se anche ci fossi stata, io la Vistola non l’avrei neanche guardata, perché mi guardavo sempre i piedi. Avevo un’idea perfetta di come erano fatti i miei zoccoli; ma tutto quello che mi circondava era così orribile da guardare che io non guardavo. Avevo sempre paura di non ritrovare la mia baracca quando uscivo dalle docce. […] Era tutta una plaga uguale, baracche uguali, nessuno ti dava una risposta, era proibito stare in giro da sola. Io andavo a testa bassa dietro a un’altra, la seguivo. Era troppo per me, capisce? Volevo mantenere il mio cervello funzionante, quindi pensavo ad altre cose. Sono sempre stata un’appassionata di cinema, e lungo la strada magari ripercorrevo tutta la trama di un film che avevo visto, uno di quei film ingenui di allora. Mi toglievo da lì, come potevo. […] Man mano che i corpi diventavano scheletri, man mano che i crampi allo stomaco si facevano più forti, immaginavamo di mangiare, e facevamo una specie di gara in cui ognuna inventava il pranzo più buono, ed era tutto un evocare, a seconda del luogo di provenienza, montagne di spaghetti, di crauti, di palacinche. Soprattutto i dolci. Nella nostra fantasia creavamo torte ricchissime, piramidi di bignè con la crema, la panna, il cioccolato. Oppure ci dicevamo, se riusciremo a tornare, io ti invito.



Particolarmente toccante è la canzone di Guccini "Auschwitz" di cui vi consigliamo l'ascolto:




Un'altra testimonianza sull'orrore vissuto ad Auschwitz è quella del fiorentino Nedo Fiano, che in questo breve video racconta la sua esperienza:



Si consiglia, infine, la visione di uno dei seguenti film sull'Olocausto e il nazismo: